Un matrimonio in provincia

by Marchesa Colombi | Unknown | This book has not been rated.
ISBN: 8806196413 Global Overview for this book
Registered by nelly61 of Arona, Piemonte Italy on 4/7/2013
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Journal Entry 1 by nelly61 from Arona, Piemonte Italy on Sunday, April 7, 2013
Più che di un matrimonio è la storia di un’attesa del matrimonio: dei dieci anni che passano dal momento in cui la sedicenne Denza matura fisicamente e si accorge di essere diventata agli occhi degli uomini un “bel pezzo di giovane”, a quello in cui finalmente si sposa, in ritardo rispetto alle sue coetanee. Al di là di quell’attesa non c’è molto: una vita piatta e ripetitiva, di abitudini borghesi, socialmente ristretta agli incontri in chiesa, alle passeggiate al centro, alle sporadiche visite alle cugine, a rare serate a teatro. A dominare è “l’immensa uggia di quella calma morta, che durava, durava inalterabile”. La noia, ma una noia ben diversa dall’ennui baudelairiana, che era autocompiacimento e autoreferenzialità, chiusura del soggetto al mondo. Qui è il mondo che si chiude al soggetto, in particolare al soggetto femminile, costringendolo suo malgrado in uno spazio limitato, asfittico, irrigidito. Emblematica la collezione di buone cose di pessimo gusto (come le avrebbe definite un altro piemontese, Gozzano) disposte, anzi “schierate”, come reliquie sul tavolo del salotto: “due cerchi di tovaglioli ricamati sul canovaccio, colla scritta ‘buon appetito’; un portasigari di velluto rosso, con una viola del pensiero ricamata in seta; una busta di pelle scura, imbottita di raso turchino, che stava sempre aperta per lasciar vedere una ciotola ed un piattino d’argento”. O le otto sedie della camera matrimoniale, inutili e neppure belle, vecchie soltanto, però sempre perfettamente allineate, “che se per caso una si staccava un dito dal muro o rimaneva voltata anche solo d’una linea verso la sua vicina, il babbo correva a metterla a posto e non era contento se non s’era assicurato che formavano una linea retta inappuntabile”. Persino le lunghe passeggiate che quotidianamente il padre le infliggeva non portavano altrove, né a nuove esperienze: “S’andava giù giù, lungo una strada maestra qualsiasi, senza scelta, senza scopo; la sua passione era proprio di mettere un piede avanti all’altro, per molte ore di seguito, e di poter dire al ritorno: ‘Si son fatti tanti chilometri’”. Un vagabondare che, ancora una volta, nulla aveva in comune con quello di Baudelaire, del suo flâneur. Baudelaire parlava della metropoli moderna per antonomasia, Parigi; Maria Antonietta Torriani (Marchesa Colombi fu lo pseudonimo che assunse per firmare i suoi articoli e i suoi libri) di Novara, circondata dalle risaie e dalla nebbia, diventata ancora più periferica allora, negli anni successivi all’unità d’Italia, dopo che il centro della vita politica della nazione si era spostato da Torino a Firenze e poi a Roma. Ma di queste vicende, come dicevo, non c’è menzione: la Storia è totalmente assente. E così le avventure. Incluse quelle dell’immaginazione: dei Tre moschettieri per esempio, libro vietato alla giovane Denza, anzi, peggio, vietatosi da sé stessa in anticipazione del veto paterno - “Figurarsi se osavo domandarglielo! E se lui l’avrebbe permesso!”. Una sorta di immunizzazione o autoimmunizzazione contro il cambiamento, quale che fosse, avvertito come una minaccia alla sicurezza della consuetudine; anche al prezzo di immunizzarsi contro la vita. La voce narrante ne è pienamente consapevole, e lo dichiara fin dall’incipit del racconto: “Difficile immaginare una gioventù più monotona, più squallida, più destituita di ogni gioia della mia”. Però non protesta, non si dispera, neppure si compiange. La vera tragedia di questo piccolo romanzo, e la ragione per cui resta, a distanza di più di un secolo (uscì nel 1885) un documento interessante, è l’accettazione della noia come condizione normale, fisiologica, del vivere sociale. Come esercizio di rinuncia, di passività: “Dacché erano scritti e tutti li credevano”, dice dei dogmi della Chiesa, “dovevano essere veri; non avevo neppure pensato che si potesse dubitarne”. Così ogni altro evento della sua esistenza, compresa la scelta del marito. Del resto il matrimonio non avrebbe mutato nulla. Il promesso sposo le annuncia una vita comoda ma isolata: “non è una villeggiatura dove si possano fare degl’inviti, dove ci si possa divertire”; in cambio “si fanno delle passeggiate lungo il giorno” - esattamente come nella casa paterna. Denza non riesce neppure a ottenere di vestirsi, il giorno delle nozze, con l’abito di seta colorata a strascico che le piaceva e che viene bocciato perché “provinciale”. Significativamente, si sposa vestita da viaggio, “come una touriste che si disponesse a fare il giro del mondo”; benché tutti sappiano che non andrà mai da nessuna parte. L’unica ribellione, muta, è quella del suo corpo - il lapidario paragrafo finale, dopo averci rassicurati che tutto è finito bene, che ora ha tre bambini e ha ripreso “l’aria beata e minchiona” di quando era ragazza: “Il fatto è che ingrasso”. Poco comprensibile la decisione dell’Einaudi di ristampare il libretto con la medesima introduzione di Natalia Ginzburg con cui era stato pubblicato nel 1973 nella collana “Centopagine” diretta da Calvino: una testimonianza autobiografica e sentimentale (“rileggendolo, incontravo la mia infanzia in ogni parola”) che aveva senso quando Ginzburg era un’attiva protagonista della cultura italiana ma che non credo oggi riesca a fare effetto su lettori (e non parlo solo dei più giovani) ormai lontani da lei quasi quanto dalla Marchesa Colombi.

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